Nomen Omen: l'importanza del brand, dell'etichetta e del naming

Nomen Omen: l’importanza del brand, dell’etichetta e del naming

di Salvo Scibilia

Dettagli di comunicazione urbana

Il romanzo affettuosamente reazionario di Amor Towles, Un gentiluomo a Mosca, ha per protagonista il conte Rostov. All’indomani della rivoluzione d’Ottobre, dopo aver subito la confisca di tuti i beni, il conte è costretto al soggiorno obbligato presso il mitico hotel Metropol. La sua raffinata competenza enologica viene distrutta quando il cameriere gli annuncia che il partito bolscevico ha lanciato una direttiva ferrea: da quel giorno i clienti possono solo scegliere tra vini bianchi e vini rossi. Tutti gli altri distinguo così cari alla borghesia decadente non sono più ammessi. Allarmato, il conte si fa condurre nelle sontuose cantine del Metropol e con sgomento vede una serie di tinozze colme d’acqua ancora calda. In superficie, appena scollate, galleggiano migliaia di etichette. Le bottiglie non hanno più un nome, sono state private della loro identità e rese indistinguibili l’una dall’altra. Quel ponte chiamato etichetta che unisce pubblico e prodotto, sabotato, è saltato in aria. Per il conte è una tragedia, ma lo sarebbe anche per tanti di noi.

In ogni agire comunicativo la tematica del nome è dunque centrale, ampia, stratificata e rispecchia lo spirito dei tempi.
Nel sentire comune, per esempio, il nome di una strada è solo un trascurabile dettaglio urbano. Una città metropolitana con fondate aspirazioni internazionali come Milano, non può perdersi in ammuffite diatribe sulla toponomastica. E poi, a chi dovrebbe piacere il nome che si dà a una via? All’intero consiglio comunale? Alla fazione dei proponenti? Agli abitanti del comune interessato? Per un Dante Alighieri che con aria soddisfatta percorre con le mani in tasca la sua strada, quella che congiunge il Castello Sforzesco al Duomo, ci sono tanti altri eminenti personaggi a cui è andata peggio, assai peggio. Giovanni ventitreesimo ha dovuto accontentarsi di un malinconico e anonimo rondò, proprio davanti a una solida caserma dell’esercito, a ridosso di Corso Sempione. Ma lui è il papa buono e perdona, incassa il duro colpo senza batter ciglio. A Quasimodo hanno intitolato un parcheggio dietro via Torino, e pare che il poeta abbia pianto quando nell’aldilà si è sparsa la notizia. Largo Salvatore Quasimodo, adiacente all’ufficio delle imposte, è solo un impresentabile fazzoletto d’asfalto, angusto, prosaico, perennemente preso d’assalto da torbe di auto insolenti.

C’è poco da fare, anche gli svarioni più vistosi ed eclatanti sembrano sbattere contro un muro di gomma, nessuna reazione: la gente ha altro a cui pensare, si dirà. Ma allora, quando si cerca un nome, non importa se per la viabilità municipale o per un nuovo prodotto che aspira a farsi strada nel mercato, occorre fare doppiamente attenzione. Da un lato c’è da ideare qualcosa di inedito, o quantomeno di inaspettato, e dall’altro c’è da bucare lo scudo di indifferenza che il pubblico solleva a tutela della propria refrattarietà. Un nome, anche quando si è smarrita l’origine della cosa che designa, resta come testimonianza della cosa primigenia. Ce lo ricorda Umberto Eco: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Ciò che dunque oggi ci resta della prima rosa apparsa nel mondo è solo un nome. È superfluo procedere a macabre analogie col nostro destino di esseri mortali. Con l’adozione di nomi che non riguardano personaggi ragguardevoli, i criteri di scelta si rivelano ancora più arbitrari e paradossali. Via Etna, a Milano, è una viuzza lunga appena un centinaio di passi, quasi disabitata, scorre invisibile tra la fiancata rossiccia di una Esselunga e una costruzione oscura. Il fondo di questa viuzza è occupato dalla vista di un pallone bianco-celeste, la copertura di un campo da tennis. Considerabile, a scelta, la caricatura di un vulcano o di un panettone. Di contro, “Piazza Vesuvio” è linda, garbata, orgogliosa di esibire la propria intima armonia. Ebbene sì, a Milano l’Etna è invidiosa del Vesuvio. E credo a ragione.

Deprivato di attribuzioni poetiche, spesso si cerca nel nome una chiave esplicativa della funzione. Nascono così Viamal (contro il mal di testa); Viakal (contro il calcare); Svelto (per la detergenza); Ambipur (deodorante per ambienti). La lista sarebbe lunga e mai completa.
Ma un nome può essere usato anche come grimaldello per occupare un’intera categoria merceologica assumendone la leadership, divenendone il rappresentante per antonomasia: è ciò che è accaduto a Scotch, K-way, Mocio, Post it, Rimmel.
A qualche nome, in questo caso quello di un brand, capita il privilegio di entrare nel mondo dell’arte dalla porta principale: Campbell’s (Tomato Soup) nell’interpretazione di Andy Warhol.

Cercare un nome non è procedere come a mosca cieca, con le mani protese verso l’ignoto che tirano a indovinare ogni volta che si imbattono nei contorni di un volto da disvelare (nominare). Un nome si cerca ad occhi aperti, annusando l’aria, guadando al prima e pensando al dopo, leccandolo come un gelato, sentendolo frusciare nel vento, echeggiare tra le montagne e poi stamparsi tra le stelle. Ogni nome reca in nuce una strategia, una prospettiva e un itinerario, forse lo stesso che seguì Ulisse mentre il Ciclope furioso e umiliato, nel vento intriso di salsedine urlava un nome che non era un nome perché era il grado zero del nome: “Nessuno…Nessuno…”.