di Salvo Scibilia
La Biblioteca Blu, collana di Franco Maria Ricci, vide la luce nel 1972 andò avanti fino al 1977 e fu ispirata da J. L. Borges.
“La materia del nulla” di Macedonio Fernández (Buenos Aires 1874 – 1952) è, come quasi tutti gli altri testi di quella raffinata collana, un volumetto esile e denso. Borges, per sua esplicita ammissione considerava Macedonio Fernández una sorta di padre spirituale, oltre che un caro amico. Non credo che esista un genere letterario che ci consenta di inquadrare “Macedonio” senza incertezze. Certamente non erano né la stravaganza né la bizzarria a fargli difetto. In una casa poco ospitale se ne stava solo per gran parte della giornata a leggere, a studiare e a scrivere. Sovente era in preda al mal di denti che sopportava con masochistica stoicità. La casa era fredda e lui intrecciava tre fiammiferi che poi accendeva per riscaldarsi, operazione che definiva “ una lusinga termica”. E’ solo un esempio per inquadrare il personaggio.
Facendo un salto portentoso scavalco l’oceano e approdo a Catania. La scena è pienamente brancatiana. A raccontarla, però, non è Vitaliano Brancati, è mia madre. E in un certo senso la racconta per conto di tutte le donne della sua generazione che come lei passavano da via Etnea. Particolarmente bella, mia madre, non fu mai, ma giovane sì, tra le due guerre. Il problema, ed è questa la grande lezione di Brancati, non è la bellezza, è la donna.
Mentre percorreva via Etnea, il passaggio davanti alla comitiva di giovanotti che stazionava in permanenza davanti al bar Savia era ineludibile, una sorta di varco doganale. I giovanotti, infervorati nella loro discussione, non importa quale, di colpo tacevano. Appare la (ma)donna, e la donna toglie il fiato, tutto diventa secondario. L’evento è sacro, il silenzio è d’obbligo e si impone come un dovere. Ad una distanza che solo l’antropologia può misurare, i giovanotti si bloccavano, giravano all’unisono il faro dei loro occhi verso mia madre e la pigliavano in consegna. Nel silenzio che amplificava il disagio, mia madre arrivava all’altezza dei giovanotti, il loro faro panoramicava accompagnandola ancora, passo passo fino a quell’altro punto fissato dalle convenzioni del predatore. Infine, dopo la corale apnea, la discussione riprendeva esattamente dal punto in cui era stata interrotta. Poi sarebbe passata un’altra donna e anche per lei i giovanotti avrebbero aperto una nuova parentesi per riempirla di estatico silenzio (questa perversa ipersensibilità fu detta gallismo).
Anche Macedonio Fernández, per abitudine, stazionava con i suoi amici davanti a un bar, lungo chissà quale avenida nella Buenos Aires dei primi del Novecento. E non è difficile immaginare che anche da lì passassero delle donne. Il nostro autore aveva l’abitudine di tenere un taccuino d’appunti su cui a fine giornata trascriveva le impressioni che riteneva più rimarchevoli.
Riferendosi a una donna che quel giorno aveva incrociato all’altezza del bar, ebbe a scriverne, in una riga. E come Lucio Fontana, con quella riga aprì uno squarcio nella tela del luogo comune: la donna intercettata solo per un attimo, riferisce Macedonio, “aveva gli occhi neri come la pena di chi non li ha visti”.
Quanti miliardi di complimenti hanno ricevuto gli occhi delle donne? Scalare la classifica con impeto creativo e porsi accanto a “Macedonio” non è facile. Basterebbe una Vita? Forse.
Ma un complimento/apprezzamento ha sempre una faccia di segno opposto: il deprezzamento, concettualmente assai prossimo all’insulto e alla calunnia. Anche in questo tipo di produzione “in negativo” il dosaggio di creatività necessaria è pari a quello richiesto dal “complimento”. Nella cifra musicale di Francesco Guccini si condensa tutta la sua tristezza appenninica: così scrive, con adorabile perfidia, Camillo Langone: il punto, non è il valore del cantautore bolognese ma il valore dell’epiteto.
Lo scintillio macroscopico dei mega poster (o Billboard) che danno un senso a Times Square può essere considerato l’archetipo potente della pubblicità in generale e dell’affissione in particolare.
Oggi l’affissione è un dettaglio che nelle metropoli nostrane tende ad affievolirsi. Logiche di natura economica rendono poco conveniente il vecchio, e per alcuni versi caro, 6×3 divenuto ormai un media scarsamente praticabile. Eppure l’affissione è come i cento metri nelle gare di atletica leggera. E’ la prova regina: un’immagine e un titolo, what else?
E il titolo, alla fine, voglio essere volutamente grossolano, cos’è se non un “complimento” indirizzato a un prodotto o a un brand? Non dev’essere piatto, non dev’essere over promise, non dev’essere già sentito; dev’essere, al contrario, innovativo e memorabile.
Dopocena continuo ad aggirarmi per le vie Milano, per le mie passeggiate igieniche.
Non sento il rumore dei miei passi, ho la certezza di Errol Garner nelle cuffie e un dubbio atroce nell’anima: e se tutti i “complimenti” che stanno in mezzo tra l’eloquente silenzio dei giovanotti brancatiani e quella riga di Macedonio, fossero solo fiato sprecato?